Alberto Dalla Volta
Alberto Dalla Volta (1922-1945) era figlio di Guido Dalla Volta, di origini mantovane, medaglia al valore nel primo conflitto mondiale, che si trasferì con la famiglia a Brescia nel 1936 per avviarvi un’attività commerciale nel settore chimico-farmaceutico. A Mantova la famiglia frequentava la comunità ebraica locale, sebbene soltanto la madre di Alberto, Emma Viterbi, fosse osservante. Guido era figlio di madre cattolica e di animo laico.
L’avvento delle leggi razziali nel 1938 non turbò particolarmente la vita della famiglia: a Brescia in quegli anni non esisteva una comunità ebraica e la rete di amicizie che Guido si era creato protesse la famiglia da discriminazioni e sanzioni. I figli Alberto e Paolo furono battezzati e poterono frequentare la scuola pubblica. Gli affari di Guido erano fiorenti, grazie anche alla presenza di soci in affari “ariani”.
Durante i primi anni di guerra Alberto, che era nato il 21 dicembre 1922, si diplomò e iniziò la Facoltà di Chimica presso l’Università di Modena, con l’intento di succedere al padre, non laureato, alla guida della ditta.
Il 27 febbraio 1942 Bruno Azzolini, uno dei soci in affari di Guido, ne denunciò l’origine ebraica alla Prefettura, alla Questura e al Consiglio Provinciale delle Corporazioni di Brescia. Dopo l’8 settembre 1943, con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, che operava su direttive dell’occupante germanico, questa segnalazione assunse la valenza di una condanna. Il successivo 30 novembre, infatti, il ministro Guido Buffarini Guidi ordinò l’arresto di tutti gli ebrei presenti sul territorio, messo in atto con uno zelo particolare dal nuovo questore Manlio Candrilli. La famiglia Dalla Volta aveva allestito un rifugio nelle Prealpi bresciane, fornito di viveri a sufficienza per una lunga permanenza, ma il mandato di arresto, spiccato per il solo Guido, la colse ancora in città, per una grave malattia contratta da Paolo, il figlio minore. Alberto si recò in Questura per consegnarsi al posto del padre, ma fu a sua volta arrestato. Era il primo dicembre 1943. Guido e Alberto furono trasferiti nel campo di raccolta di Fossoli, dove si trovava anche Primo Levi. Il 22 febbraio 1944 furono fatti salire, con altri 650 ebrei, su un convoglio ferroviario che raggiunse Auschwitz il 26. Guido fu ucciso otto mesi dopo, a ottobre, in occasione della grande selezione.
Nell’inferno di Auschwitz, tra Primo Levi e Alberto Dalla Volta nacque una grande amicizia: Primo vide in Alberto l’espressione dell’Uomo che resiste e rifiuta di sottomettersi alla logica perversa e spietata del Lager.
«Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidue anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra: non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto al volo: non sa che poco francese, e capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in Italiano e a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. “Sa” chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, e chi si deve resistere. Eppure (e per questa sua virtù oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte» (da Se questo è un uomo). «Per lui la rinuncia, il pessimismo, lo sconforto, erano abominevoli e colpevoli: non accettava l’universo concentrazionario, lo rifiutava con l’istinto e con la ragione, non se ne lasciava inquinare. Era un uomo di volontà buona e forte, ed era miracolosamente rimasto libero, e libere erano le sue parole ed i suoi atti: non aveva abbassato il capo, non aveva piegato la schiena. Un suo gesto, una sua parola, un suo riso, avevano virtù liberatoria, erano un buco nel tessuto rigido del Lager, e tutti quelli che lo avvicinavano se ne accorgevano, anche coloro che non capivano la sua lingua. Credo che nessuno, in quel luogo, sia stato amato quanto lui. Mi redarguì: non bisogna scoraggiarsi mai, perché è dannoso, e quindi immorale, quasi indecente» (da Il sistema periodico - Il Cerio).
Nel gennaio del 1945 Primo Levi si ammalò di scarlattina e sfuggì alla marcia di evacuazione.
«Alberto se ne partì a piedi coi più quando il fronte fu prossimo: i tedeschi li fecero camminare per giorni e notti nella neve e nel gelo, abbattendo tutti quelli che non potevano proseguire; poi li caricarono su vagoni scoperti, che portarono i pochi superstiti verso un nuovo capitolo di schiavitù, a Buchenwald ed a Mauthausen. Non più di un quarto dei partenti sopravvisse alla marcia. Alberto non è ritornato, e di lui non resta traccia» (da Il sistema periodico - Il Cerio).
Gli altri componenti della famiglia di Alberto, la madre Emma e il fratello Paolo, sopravvissero, nascosti sotto falso nome, in casa della famiglia Rizzini di Magno, in Val Trompia.